Sulle pensioni nella manovra di bilancio non vi sono novità sostanziali a fronte di alcuni ridotti aggiustamenti.
In pratica vengono prorogati, per il 2025, gli interventi di flessibilità soprattutto delle uscite quali l’Ape sociale, quota 103, l’Opzione donna Tutti con le restrizioni e le modalità già previste per il 2024.
Accanto a queste agevolazioni, che in molti casi hanno rappresentato un aggravio per i conti dell’Inps e quindi dello Stato, si profilano misure per favorire, invece, la permanenza al lavoro.
Va delineandosi l’ipotesi di mandare in pensione i dipendenti sia privati che pubblici a 70 anni, su base volontaria e dietro incentivi per rimanere al lavoro. In particolare il personale della pubblica amministrazione potrebbe quindi restare in servizio fino a 70 anni per attività di tutoraggio e di affiancamento ai nuovi assunti, con un criterio d’età addirittura superiore di quello previsto dalla tanta vituperata riforma Fornero.
Riforma che è stata, da alcuni politici, catalogata come un disastro avendo avuto l’obiettivo di porre il limite alle pensioni di vecchiaia a 67 anni rispetto ai 65 anni delle norme precedenti, e per quelle anticipate a 41/42 anni e dieci mesi e l’estensione il calcolo pensionistico con il sistema di calcolo contributivo per tutti.
Nel 2014 il Governo impose la cessazione automatica a 67 anni per i dipendenti pubblici. L’obiettivo era di sfoltire i ranghi della Pa. Ora si valuta il contrario. Il rinvio della pensione sarebbe del tutto volontario e non porterebbe né all’innalzamento dei requisiti, né ad un cambio delle condizioni.
Arriva, invece, dal Ministro dell’Economia, la decisione che con la manovra sarà introdotto un innovativo meccanismo di incentivazione alla permanenza al lavoro, su base volontaria, con un incentivo significativo sul fronte fiscale, Si tratta, in pratica, della revisione del cosidetto bonus Maroni che sarà sostenuto anche da un meccanismo di detassazione. Già introdotto dalla legge di bilancio per il 2023 , l’incentivo al posticipo del pensionamento era stato previsto per chi, lavoratore dipendente, avendo maturato i requisiti per la pensione anticipata flessibile ( Quota 103 ) scegliesse di non pensionarsi e di proseguire l’attività lavorativa.
L’inventiva consiste nella possibilità di rinunciare all’accredito contributivo per la pensione e di ottenere l’importo equivalente in busta paga. In pratica le somme così corrisposte sono imponibili a fini fiscali ma non ai fini contributivi. La proposta odierna interverrebbe proprio sul fronte fiscale riducendone l’aggravio. Ricordiamo che la versione originale del bonus Maroni, del 2004 e scaduta nel 2007, prevedeva che i contributi destinati alla pensione, nel sistema retributivo incidevano nella misura del 32,7 della retribuzione, finissero nella busta paga in regime di esenzione fiscale.
Ritardare la pensione dei dipendenti statali fino ai 70 anni riprende in pratica quello che è stato previsto per i medici dipendenti e convenzionati con il sistema sanitario nazionale a cui è stata data la possibilità di rimanere in servizio fino a 72 anni d’età.
Precedentemente, qualora il medico o l’odontoiatra dipendente, a 65 anni di età, avesse raggiunto il diritto alla pensione (cioè ha 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva più tre mesi di finestra se uomo e 41 anni e 10 mesi se donna), sarebbe dovuto essere collocato a riposo.
Quello dei 65 anni di età era un limite che per l’immaginario dei lavoratori coincideva con il raggiungimento dell’età pensionabile. Dopo i 65 anni, si diceva una volta, si va finalmente in pensione. Ma ormai sappiamo bene che non è più così. L’età per la pensione di vecchiaia è ormai di 67 anni, mentre, salvo canali di uscita eccezionali di solito poco convenienti, per la pensione anticipata occorrono 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva , più altri tre mesi di finestra, ed un anno in meno per le donne.
Il limite dei 65 anni mantiene però, ancora, una sua valenza per i dipendenti pubblici a tutti gli effetti. Il fatto è che l’articolo 12 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (tuttora vigente) prevede appunto che il limite massimo d’età per la permanenza in servizio dei dipendenti degli enti pubblici è individuato dal compimento del 65° anno di età in quanto: “ La cessazione del rapporto di impiego […] può avvenire: […] per collocamento a riposo dal primo del mese successivo a quello del compimento del 65° anno di età”.
Su questa base, in un momento successivo, è intervenuto l’articolo 2, comma 5, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, che ha fornito, poi, l’interpretazione autentica dell’articolo 24, comma 4, secondo periodo, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.
Tale ultima norma, dunque, va interpretata “ nel senso che per i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori di appartenenza per il collocamento a riposo d’ufficio e vigente alla data di entrata in vigore del decreto-legge stesso, non è modificato dall’elevazione dei requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia e costituisce il limite non superabile, se non per il trattenimento in servizio o per consentire all’interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione ove essa non sia immediata, al raggiungimento del quale l’amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro o di impiego se il lavoratore ha conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti per il diritto a pensione”.
Per le novità proposte nella nuova legge di bilancio e i termini della detassazione per favorire la permanenza al lavoro, bisognerà, comunque, attendere, la definizione legislativa e il suo iter in Parlamento.
REDAZIONE AISI
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