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Trattamento di fine rapporto ritardato

MEDICI OSPEDALIERI / Nei giorni scorsi è avvenuta una importante saldatura. Sette confederazioni hanno lanciato una petizione per porre fine alla dilazione dei trattamenti di fine servizio e di fine rapporto dei dipendenti pubblici.

Fino a sette anni. Tanto possono dover attendere un medico ospedaliero, un infermiere, un professionista sanitario per ottenere il bonifico del trattamento di fine rapporto. Molto più che nel privato.


Una disparità rispetto al privato. Che si aggiunge a una seconda peculiarità della Pubblica amministrazione, rendendo l’insieme insopportabile: da sempre, il pubblico dipendente paga una sorta di premio mensile per costruire, stipendio dopo stipendio la sua “liquidazione”.


Da tempo i sindacati del settore pubblico sollevano il problema. Nei giorni scorsi è avvenuta una importante saldatura.


Sette confederazioni – i sindacati autonomi della dirigenza di Cosmed e Codirp, con Cgil e Uil più Cgis e Cse – hanno lanciato una petizione a Governo e a Parlamento per porre fine alla dilazione dei trattamenti di fine servizio (Tfs) e di fine rapporto (Tfr) dei dipendenti pubblici.


“È ora che il legislatore intervenga con urgenza per porre fine a questo sequestro illegittimo”. La petizione su change.org è avviata su una media di 5 mila firme al giorno.


Il trattamento di fine rapporto sorge in origine per finanziare il periodo “grigio” intercorrente fra il l’ultimo giorno di lavoro e l’erogazione del primo assegno pensionistico. Dovendo sostituire l’assegno di quiescenza, spesso dilazionato da elaborati e lunghi conteggi, non andrebbe ritardato più di tanto.


Oggi il lavoratore privato riceve il suo Tfr in due mesi e può persino chiedere anticipi prima di pensionarsi. Il pubblico dipendente che va in pensione subisce invece ritardi pesanti.


Per legge, il pagamento del Tfr/Tfs dovrebbe arrivare entro 105 giorni dal pensionamento, ma nel pubblico slitta di un anno e si arriva ad un anno e tre mesi, per un versamento che giunge in unica soluzione solo se l’ammontare della liquidazione è pari o inferiore a 50 mila euro.


Ma già se l’importo è fra 50 e 100 mila euro, la liquidazione è frazionata in rate e tutto quello che supera i 50 mila euro arriva l’anno dopo. Oltre i 100 mila euro, si aspettano tre anni per avere tutta la cifra.


C’è poi il caso di chi va via con “quota 100” pensionandosi a 62 anni: qui il diritto alla liquidazione scatta quando si compie l’età pensionabile, cioè a 67 anni, perciò si devono attendere 5 anni come minimo. In realtà, i ritardi possono arrivare fino a sette anni.

“Soprattutto in un periodo di alta inflazione – sottolineano i firmatari dell’appello – ogni dilazione erode nel tempo il potere d'acquisto di queste liquidazioni, aggiungendo un ulteriore danno al già inammissibile ritardo nell’erogazione delle stesse”.


«L’iniziativa congiunta della petizione nasce dal fatto che si è creata nella dipendenza pubblica una consapevolezza ampia e condivisa su una serie di disparità di trattamento verso i lavoratori del pubblico e tra categorie di lavoratori pubblici. Uniti possiamo parlare con una voce sola ai tavoli istituzionali», spiega Tiziana Cignarelli Segretario generale Codirp.


«Siamo una categoria “trasparente” come busta paga, che sostiene per intero la sua parte in termini di oneri collettivi, ma che è spesso nel mirino di politiche restrittive. Un esempio per tutti: i tagli al coefficiente di trasformazione dei contributi pensionistici versati prima del 1996, stabiliti nell’ultima Finanziaria».


Tagli sul reddito che non sono più tollerabili. «Quanto per ragioni di contenimento della spesa pubblica non viene incamerato da lavoratori e lavoratrici, rispetto ad una pensione che avevano messo in preventivo, diventa – a fronte del crescere del costo della vita – oltre che un problema per quei cittadini, un fattore di dissuasione per un giovane che volesse diventare insegnante, medico ospedaliero, infermiere, militare», spiega Cignarelli.


Al momento ci sono due progetti di legge per intervenire sulle disparità in tema di accantonamento e di versamento del Tfr nel pubblico. Ma il Ministero dell’Economia ha posto una sorta di veto: intervenire sarebbe costoso, forse incompatibile con il patto di stabilità europeo.


Sulla disparità nell’accantonamento è intervenuta la Corte Costituzionale due volte. I dipendenti pubblici avevano in passato l’indennità premio di servizio cui contribuivano con una sorta di premio assicurativo.


Poi per gli assunti a tempo indeterminato dal 2001 si è passati al Tfr mentre per chi –più “anziano”- vi era indirizzato, l’Ips si è trasformata in Tfs. Invariabilmente, tutt’e due gli istituti subiscono oggi la trattenuta inesistente nel privato.


Nel 2018 con sentenza 213 la Consulta ha legittimato tale trattenuta osservando che serve una continuità non solo tra Ips e Tfs ma anche tra Ips e Tfr, senza disparità tra nuovi e vecchi assunti.


Nel 2023 però con la sentenza 130/2023 ha dichiarato la trattenuta del Tfs in contrasto con il principio della giusta retribuzione sancito dall'articolo 36 della Costituzione. Una sorta di monito per il legislatore, fin qui inascoltato.


Le sette confederazioni invitano oggi non solo i dipendenti pubblici ma tutti i cittadini a firmare la petizione e ad una mobilitazione decisa. «Il problema riguarda tutto il paese, tutti i lavoratori», spiega Cignarelli. «Se si pensa che l’80% dei tributi reclamati dal Fisco non vengono pagati, e che ad entrate deludenti per lo Stato i governi rispondono da anni restringendo il potere d’acquisto dei lavoratori che le tasse le pagano, tra cui i pubblici dipendenti, l’indignazione è grande.


Sia da parte di chiunque da sempre sostiene le entrate statali, con crescente fatica, sia da parte dei giovani, tutti, che constatano prospettive economiche e di vita sempre peggiori e non vedono messo in atto alcun meccanismo di solidarietà intergenerazionale».


REDAZIONE AISI

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