Nella vicina terra elvetica i medici di famiglia come “ricetta” per ridurre i costi sanitari. Aumenta il numero di pazienti che va da più specialisti per un solo caso. Un fenomeno che incide su oneri e qualità delle cure. La soluzione: informazioni centralizzate per evitare confusione e doppi esami.
Uno, due, tre, ma anche 11 consulti specialistici per un solo problema di salute. Il numero di coloro che si rivolgono a più medici per un unico caso è in aumento. Un fenomeno che ha conseguenze sia sui costi sia sulla qualità delle cure. Ma perché succede? E quali sono le soluzioni? Lo abbiamo chiesto a Felix Schneuwly, esperto del portale di confronto prezzi Comparis, e al dottor Nello Broggini, medico di famiglia e co-vicepresidente dell’Ordine dei medici del Cantone Ticino.
La maggior parte dei pazienti che si rivolge a più medici lo fa perché insoddisfatta delle diagnosi e dei trattamenti che riceve, ma anche perché ha bisogno di conferme indica Broggini. Per questo “è importante riuscire a stabilire un rapporto soddisfacente e di fiducia col paziente”. Secondo Schneuwly, c’è anche un aspetto che riguarda alcuni medici, che pur di non perdere il proprio paziente lo accontentano con le visite e le cure richieste.
Esami ripetuti inutilmente
“Vari studi indicano che evitando i trattamenti ed esami diagnostici inutili, c’è un potenziale di risparmio del 20% nell’assicurazione malattia di base”, indica l’esperto di Comparis. E in generale “il 40% dei costi sanitari obbligatori vengono dalle cure ambulatoriali”, aggiunge Broggini.
Bisogna però differenziare tra le visite e gli esami specialistici disposti dal medico di famiglia e quelli ottenuti autonomamente dalla persona. “Quando è il medico a mandare il paziente da un collega, lo fa per confermare una sua diagnosi o per avere delle indicazioni di tipo tecnico.
Tutte le informazioni sono centralizzate e tornano al medico di famiglia”, dice Broggini. Nel secondo caso, invece, “le informazioni sono disgregate e molti esami di laboratorio vengono rifatti”. Questo perché spesso i pazienti non dicono di averli già svolti, spiega Schneuwly. “A vederlo sono solo le casse malati, ma a quel punto è troppo tardi, perché i trattamenti sono stati effettuati”. Oltre a costi superflui, tutto ciò porta a confusione per i pazienti e in alcuni casi a seguire trattamenti di vario tipo che combinati tra loro possono avere conseguenze negative.
Un secondo parere può abbassare i costi
Bisogna però differenziare tra diagnosi, o secondi pareri, ed esami. Rifare questi ultimi a distanza di poco tempo risulta solitamente superfluo, perché non porterebbe a risultati diversi, salvo per alcune malattie.
Sull’avere un secondo o terzo parere circa i risultati degli esami e i trattamenti, c’è chi è favorevole e chi lo è meno. Schneuwly spiega che tendenzialmente le casse malati sostengono questa pratica, in quanto “le statistiche mostrano che quando le persone chiedono un secondo parere, ci sono meno operazioni inutili”.
Secondo Broggini, invece, è una pratica che può andare bene, ma deve partire tutto dal medico di famiglia, che centralizza le informazioni e decide se è necessario un ulteriore consulto specialistico.
Meno operazioni si traducono anche in meno ospedalizzazioni. Questo, che oltre a far risparmiare alle casse malati, e quindi a chi paga i premi, fa economizzare anche ai Cantoni, e dunque chi paga le imposte. Questi ultimi si prendono infatti carico del 55% dei costi di un ricovero.
La centralizzazione alla base di una buona presa a carico
La centralizzazione è un aspetto al quale tendono anche le casse malati e secondo Schneuwly bisogna puntare sui modelli alternativi, quelli che come primo contatto hanno un professionista della cassa malati (telemedicina), un medico di famiglia o una farmacia. Con questi modelli è possibile risparmiare anche sui premi e inoltre parte di tutto ciò che viene economizzato con questo sistema viene ridato alla rete di medici che ne fa parte. Professionisti della salute che quindi non sono spinti a fare più visite ed esami, ma a “migliorare l’efficacia e la qualità dei trattamenti”.
Per ridurre i costi ed evitare confusione ci sono tre aspetti su cui lavorare secondo Broggini. Il primo è educare il paziente a rivolgersi prima al dottore di famiglia: “Come medici, se riteniamo necessari dei trattamenti, non bisogna temere, li facciamo fare”.
Il secondo è limitare la libertà del paziente di rivolgersi a qualsiasi medico o specialista: “Tutti hanno il diritto di avere ciò che è necessario, ma non tutto ciò che vogliono. Il rischio è che le casse malati o il Consiglio federale pongano dei limiti ai costi e si riducano le prestazioni coperte”. Il terzo è imporre il modello del medico di famiglia: “È quello che fa risparmiare di più e garantisce la migliore qualità delle cure”. Per Schneuwly la ricetta vincente è quella di usare uno dei modelli alternativi e istituire la cartella clinica informatizzata, che permette di avere tutte le informazioni in un unico posto.
REDAZIONE AISI
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