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Medicina generale, una legge per renderla specialità

Una legge per trasformare la medicina generale in specializzazione e dare chance di carriera ai medici convenzionati. A “chiamare” la riforma è Angelo Testa presidente del sindacato dei medici di famiglia Snami.

Che parte da un assunto: pochi laureati si avvicinano alla convenzione, di certo meno di quante sono le borse del triennio. La professione è poco appetibile e non ci sono i numeri per riempire le case di comunità.


È vero che, anche grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza, per la classe del corso di formazione post-laurea 2023-26, nelle 21 tra regioni e province autonome avremo 2700 posti, dopo i 3406 del ‘21 e i 3675 del ‘22.


Tuttavia, spiega Testa, «molti contratti continuano a restare vacanti a causa della scarsa attrattività della professione e dell’abbandono di colleghi che preferiscono orientarsi verso le vere specializzazioni universitarie più gratificanti dal punto di vista professionale e remunerativo».


Sul territorio invece, “le Case di Comunità rischiano di rimanere senza medici, vanificando gli sforzi per garantire l’operatività dei setting assistenziali previsti dal decreto 77 sugli standard dell’assistenza territoriale”. Servirebbe “una riforma che semplifichi e ottimizzi tutto il sistema della medicina generale per migliorare le condizioni di lavoro e le prospettive di carriera”. Il richiamo di Testa arriva dopo che dal ministero della Salute si è ribadito che la nuova convenzione implica il passaggio dei medici di famiglia in servizio nelle case di comunità, e la trasformazione in “case-spoke” delle sedi dei gruppi e delle aggregazioni funzionali territoriali.


Snami ha sempre avversato l’idea di “allontanare” il medico dall’assistito, insita nel lavoro in sedi nuove. Ora però deve fare i conti con un dato di fatto. «Lo stato sostiene il modello del medico che lavora nella casa di comunità. Una scelta che peggiorerà alcune situazioni e in certi casi allontanerà i medici dagli assistiti. Dunque, dice Testa almeno bisognerà ragionare su obiettivi delle “case” e regole d’ingaggio».


Il bivio è tra convenzione e dipendenza. «Un conto è se lo stato assumerà i nuovi medici come gli ospedalieri con ferie e malattia coperte. Altro è conto se resterà l’attuale lavoro, più stressante di 4 anni fa, con carichi moltiplicati, nel quale facciamo da parafulmine nel rapporto lacerato tra cittadini e servizio sanitario, a fronte di un trattamento da liberi professionisti esterni al Ssn con i costi del welfare a nostro carico».


Testa chiede una legge, ma non ad ogni costo. «Di leggi ne giacciono troppe, spesso in attesa di finanziamenti e di decreti attuativi. Lo stato però deve chiarire che tipo di medico del territorio vuole. Oggi ci si chiedono tre incombenze non nostre: il lavoro in casa di comunità, lo sfoltimento delle liste d’attesa e lo screening dei pazienti non urgenti al posto del pronto soccorso.


Noi siamo a contatto con tutti i tipi di angoscia e di richiesta dei pazienti: quando un cittadino malato o no decide di avere bisogno di noi, ci dobbiamo essere. Questo abbiamo fatto per 46 anni.


Adesso si dovrebbero affiancare altre incombenze che saranno i giovani colleghi usciti dal triennio a dover affrontare. Al medico di assistenza primaria si chiede inoltre lo sfoltimento delle attese, cioè il taglio sulle ricette provenienti da specialisti che ne chiedono la trascrizione perché il Ssn non li dota di ricettari o non li usano. Il decreto liste d’attesa ci chiede di affievolire una domanda di cui siamo artefici in piccola parte, e presto o tardi qualcuno ci chiederà conto della crescita della spesa.


Mai nessuno si sofferma sull’entità del risparmio generato nei nostri studi in termini di pazienti che non hanno dovuto fare un certo esame o recarsi in Ps perché abbiamo risolto la loro situazione.


Noi diciamo che la nostra retribuzione com’è, non calibrata sul merito né sui carichi di lavoro rinnovati, è inattuale. Ed è inattuale l’affidamento del servizio a personale di studio retribuito a nostre spese senza che la remunerazione salga in parallelo. La risposta a questo stato di cose è che in certe zone carenti il medico neodiplomato non ci va, o va via presto perché intanto si va specializzando in altra disciplina».


«È ineludibile affrontare il nodo delle nostre condizioni di lavoro e della carriera–dice Testa e va rivisto il massimale, che può risultare insostenibile a fronte dei nuovi compiti. Nei prossimi giorni, il decreto liste d’attesa diventerà legge.


Ma il presidente Snami avverte: «Atteso che la colpa per le troppe ricette non è nostra (a noi è indotto semmai dagli specialisti un volume abnorme di richieste da trascrivere) bisogna anche chiedersi perché il collega medico dipendente fugga dalle corsie appena finito l’orario per fare libera professione privata pura o intramuraria. La soluzione sarebbe quella di alzare la remunerazione delle ore aggiuntive e portarla a competere con quella delle ore di libera professione pura.


Solo così si disincentiva quest’ultima. Posto che non è colpa di nessun medico se il servizio sanitario per anni si è appoggiato su privati, liberi professionisti, convenzioni e appalti esterni evitando di sviluppare una più ampia offerta istituzionale».


REDAZIONE AISI

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