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Immagine del redattoreAISI

Alzheimer, in un quarto di secolo l’Italia è rimasta (quasi) ferma.

I risultati allarmanti del 4° Rapporto Censis-Aima.

Se ci fai caso, ti accorgi che intorno al 21 settembre (Giornata Mondiale Alzheimer), sono tantissime le voci che si alzano sulla malattia di Alzheimer: dalla politica, che ha detto …, che ha fatto …, prodiga nel raccontare impegno ed efficienza; dalle istituzioni, che hanno fatto e faranno …, con tempestività e assoluta competenza; dal privato, che “generosamente” è al servizio del cittadino con empatia e coinvolgimento; dai professionisti di qualsivoglia specialità che fanno sapere di esserci, di essere a disposizione, e di conoscere problemi e soluzioni. E' davvero questa la realtà che stiamo vivendo da un quarto di secolo?


Se davvero è così, allora perché in 25 anni dalla prima ricerca, Censis e Aima ancora denunciano una situazione quasi immutata?


La narrazione della condizione delle persone con Alzheimer e dei loro caregiver, nata dalla collaborazione tra l’Associazione italiana Malattia di Alzheimer (Aima) e il Censis, attraverso le quattro indagini realizzate dal 1999 ad oggi, racconta attraverso la loro "vivavoce", il vissuto di malattia e della convivenza con essa che coinvolge e schiaccia tutta la famiglia, ed è un lungo racconto di sostanziale staticità della condizione dei pazienti e dei loro caregiver, nonostante gli innegabili passi avanti nella conoscenza della malattia e nella ricerca.


I tempi di diagnosi ad esempio: dalla comparsa dei primi sintomi alla diagnosi trascorrono comunque due anni in media (2,5 nel 1999 e nel 2006, 1,8 nel 2015) e non muta la quota (sempre intorno a poco meno della metà del campione) di chi segnala difficoltà nella classificazione di questi sintomi da parte dei medici a cui ci si è rivolti in prima istanza.


Nonostante la creazione di servizi specifici per l’Alzheimer e la demenza (le UVA, a partire dal 2000, e gli attuali Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze (CDCD) dal 2015) permangono le difficoltà ad aver un punto di riferimento unico e costante nelle cure: solo il 37,7% dei pazienti è seguito da un CDCD, quota ancora più ridotta rispetto al 56,6% del 2015 e sempre con le solite differenze territoriali, dal 48,2% dei pazienti seguiti del Nord al 32,4% del Sud.


L’accesso ai farmaci rimane limitato, e si mantiene, o peggiora addirittura, la carenza storica di servizi di assistenza a domicilio e sul territorio.


Le percentuali di chi usufruisce di assistenza domiciliare o centri diurni sono stabili intorno al 10/15 %, anche se c’è stato il Piano Nazionale Demenze del 2015 e lo stanziamento (di 5 milioni per 3 anni) nel 2021 per il Fondo per l’Alzheimer e le demenze.


Non muta il vissuto di solitudine e di grande difficoltà dei caregiver, oltre il 75% donne, che sperimentano l’impatto dei loro compiti di assistenza in tutti gli ambiti della propria vita, dalla salute al lavoro alla vita di relazione.


Anche la soluzione di assistenza informale autogestita dalle famiglie attraverso il coinvolgimento delle badanti si mantiene stabile (continuano ad usufruirne il 40% circa delle famiglie) anche se si riduce nel tempo il supporto ottenuto, perché diminuiscono le ore di impegno ed aumentano i costi. Infatti, i costi diretti delle famiglie, che rappresentano l’84,1% del totale, continuano a crescere e sono aumentati in termini reali del 15% dal 2015 ad oggi, mentre il costo medio annuo per paziente ha raggiunto i 72.000 euro.


Il quadro complessivo è quello che vede le famiglie sempre più sole e fragili, sebbene ancora e sempre più centrali per la cura delle persone con Alzheimer.


Più sole e fragili nonostante le dichiarazioni, in occasione delle Giornate Mondiali, che si rivelano per quello che sono: dichiarazioni.


Sconforto misto a speranza, emerge anche dalla indagine effettuata sulle persone con MCI (declino cognitivo lieve), la novità di questa edizione dell’indagine Censis – AIMA.

Sono emersi i tratti di una condizione poco esplorata ma che dovrebbe rappresentare una priorità di azione per il SSN, perché la diagnosi e l’intervento precoce rappresentano uno dei pochi strumenti efficaci per affrontare la crescita esponenziale delle demenze legata agli effetti epidemiologici dell’invecchiamento.


Quello che ci hanno raccontato le persone con un disturbo cognitivo lieve, direttamente interpellate nell’indagine, è un vissuto di convivenza con una diagnosi difficile, che assegna un nome alle loro difficoltà e li instrada in un percorso di cura basato essenzialmente sull’adozione di uno stile di vita sano e terapie non farmacologiche, con accesso a farmaci e protocolli sperimentali che coinvolge il 40% circa dei pazienti, nel nostro campione quasi tutti seguiti da un CDCD.


Ma allo stesso tempo è una diagnosi che li fa vivere nella costante paura di un peggioramento, mentre già si sentono in larga parte limitati nelle loro attività quotidiane e vedono nei familiari l’unico sostegno possibile, anche per il loro futuro incerto. Un futuro a cui in molti non riescono neanche a pensare, mentre hanno nei nuovi farmaci, che dovrebbero essere presto disponibili, l’unica speranza concreta.


I numeri altissimi (tra pazienti e caregiver il 5% della popolazione), i costi altissimi, l’altissimo grado di disperazione, rendono ancora più forte il grido d’aiuto che si alza dalle famiglie, che non può rimanere inascoltato: come diceva uno slogan di successo “servono fatti, non parole”.


REDAZIONE AISI

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